Laboratorio Alte Valli - Cuore innovativo
Giunte in Europa dopo la scoperta dell'America, le patate furono accolte all'inizio da forti pregiudizi. Era un frutto misterioso, che cresceva tra popolazioni che ispiravano diffidenza e per di più sotto terra.
Si temeva che fossero velenose e si diceva che la solanina in esse contenuta desse alle streghe il potere di volare. Furono osteggiate anche dalla medicina ufficiale che decretò potessero andare bene al massimo per l'alimentazione degli animali. Nel Dizionario universale economico e rustico, edito a Milano nel 1777, si leggeva che, nonostante la carestia, molti contadini avrebbero preferito morire di fame piuttosto che mangiare i “pomi di terra”. Bisogna dire che le prime patate erano anche di una qualità non eccelsa, ancora poco selezionate e dalla polpa acida e acquosa.
I primi successi con la coltivazione delle patate si raggiunsero alla fine del XVIII secolo in Germania e sopratutto in Francia. Nel 1772 l'Accademia di Besançon invita gli studiosi francesi a studiare nuovi vegetali che potessero sostituire i cereali durante le carestie; il successo delle patate fu assoluto: tutte e sette le relazioni presentate le menzionavano.
Toccò ad Antoine Parmentier, esperto botanico e gastronomo raffinato, “sdoganare” l'utilizzo di questo tubero. Lo stratagemma fu geniale: le patate furono messe a dimora per il sovrano di Francia nella piana di Sablons e a sorvegliare la preziosa coltivazione furono messi di guardia dei gendarmi armati, spesso volutamente distratti. Ovvio che se i nuovi frutti erano un boccone da re, il popolo ne fosse attirato: fu l'inizio di un successo senza precedenti.
La storia dei decenni successivi fece il resto. C'era bisogno di sfamare le masse e le patate apparvero provvidenziali. Furono piantate nei giardini delle Tuileries, per ordine della Comune di Parigi, sacrificando le coltivazioni di rose tanto care a Maria Antonietta.
In seguito anche le truppe di Napoleone le preferirono alla farina di frumento, perchè più facili da trasportare, meno costose e deteriorabili.
Alcune varietà di patate (presentate dall'Azienda Agricola Cascina Drubi)
In Italia fu Vincenzo Virginio, fondatore della Reale Società Agraria di Torino, voluta da Vittorio Amedeo III, a sperimentarne la coltivazione in quel di Pinerolo. Da lì ogni località ebbe il suo mecenate, in Piemonte intervenne addirittura San Giovanni Bosco, all'epoca ancora modesto prete di campagna, che definì le patate “una miniera d'oro per la loro grande e molteplice utilità”.
Poco per volta le patate entrarono nell'uso quotidiano a contendere il posto ai legumi, alla polenta e alle castagne. All'inizio dell'ottocento, a causa di un susseguirsi di cattive annate, culminate con la carestia del 1816-17, la coltivazione delle patate si diffuse rapidamente nelle aree più povere, dove la prospettiva di un raccolto abbondante sopperiva all'atavica lotta contro la fame; un piccolo appezzamento di terreno coltivato a grano sfamava una famiglia, ma lo stesso appezzamento coltivato a patate ne sfamava molte di più.
Fu così che i terreni di montagna, non adatti alla coltivazione dei cereali, si rivelarono di struttura ideale per il nuovo tubero. Con gli inverni rigidi che neutralizzano gran parte delle malattie ed estati fresche e asciutte che favoriscono la fruttificazione, ancora oggi le patate di montagna non subiscono trattamenti antiparassitari o antigermoglianti.
A differenza del mais, che era considerato cibo per i poveri, le patate trovarono estimatori in tutte le classi sociali e gli venne cambiato anche il nome: dal francese pomi di terra a patata di origine spagnola, ma nei vari dialetti furono chiamate in molti altri modi. Tartifle o tartifole per la somiglianza al più pregiato tartufo, nelle valli occitane venivano chiamate bodi.
Per le patate vennero create nuove ricette, oppure adattate quelle della tradizione. In Piemonte patate e aioli (una salsa simile alla maionese a base di aglio e uova) divenne il piatto d'obbligo per le feste patronali; lessate, schiacciate e unite a burro e latte diventano purea; in Savoia la stessa purea, unita a pane, latte e uova, forma il farçon, proposto sia in versione dolce che salata.
La “parsimonia alpina” ha creato poi piatti dove le patate venivano aggiunte ad un ingrediente più costoso come la pasta, oppure entravano nei ripieni al posto della più preziosa carne, come nel caso dei ravioli di Vernante, il cui ripieno, molto rustico, prevede il solo utilizzo di patate, porri, uova e formaggio. A Cortina si preparavano i casunzei, farciti con barbabietole rosse, patate e carote.
Campo di patate in alta valle di Susa
Un po' in tutto l'arco alpino, con nomi diversi, ritroviamo poi diverse preparazioni a base di patate cotte in teglia. Le patate in tecia rosolate con lardo e cipolla sono tipiche del Carso, il rösti delle Alpi trentine. Nei crotti della Valchiavenna la tradizione è ancora più semplice: le patate, tagliate a fette piuttosto spesse, sono cotte sulla piòta, la lastra di ardesia utilizzata per arrostire le costine di maiale, in questo modo si impregnano del sugo della carne restando morbide, dorate e dal profumo eccezionale.
Sulle montagne piemontesi nei giorni di bucato erano preparate semplicemente bollite e condite con prezzemolo tritato, a volte si aggiungevano anche alcune uova sode ed era subito abbondanza.
Unendole a farina bianca si ottennero gli gnocchi, uno dei piatti più diffusi e conosciuti. In terra brigasca (al confine tra Francia, Piemonte e Liguria, in quelle che oggi sono le provincie di Cuneo e Imperia), si preparano i sügeli, dalla forma simile alle orecchiette; a Moena, sulle Dolomiti, un impasto simile agli gnocchi viene utilizzato per preparare i ciaronciè, una sorta di ravioli ripieni di spinaci selvatici passati nel burro; in valle Varaita le patate lesse vengono impastate con una Toma fresca per formare le raviòles dalla caratteristica forma a fuso per la lana.
Curiosa poi la versione che prevede di grattugiarle a crudo, come nel caso degli gnocchi del Kyè, diffusi nel Monregalese, delle piode di Monno in Valcamonica o delle calhiette delle valli valdesi.
In tutte queste ricette le patate, grattugiate a crudo, vengono mescolate con ingredienti molto semplici, a dimostrazione che in questi casi è la qualità della materia prima che fa la differenza. Nel caso delle piode e degli gnocchi del Kyè si mescolano semplicemente con farina di frumento e si condiscono le prime con burro fuso e formaggio d'alpeggio, le seconde con un sugo di pomodoro e pancetta. Le calhiettes prevedono invece l'aggiunta di cipolle fatte rosolare nel burro e toma, sia nell'impasto che nel condimento, arricchito anche da salsiccia o salame crudo.
Le Cajettes di Rochemolles
Anche in alta Val di Susa, e più precisamente nella zona di Rochemolles, la cultura occitana ci ha tramandato la ricetta di questi rustici gnocchi di montagna. Le cajettes (o cabiette) di Rochemolles si preparano con:
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300 g di cipolle miste gialle e rosse
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300 g di patate di montagna
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2 uova
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Farina bianca e farina di segale q.b.
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Prezzemolo o altri odori di stagione (timo, rosmarino, salvia)
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Brodo di carne (un tempo si usava il brodo di montone)
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Burro
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Formaggio grattugiato
Si fanno imbiondire le cipolle affettate nel burro e si uniscono alle patate crude grattugiate, si uniscono all'impasto gli odori tritati e la farina bianca e quella di segale nella stessa misura e in una quantità sufficiente ad ottenere un composto lavorabile, ma ancora morbido.
Sulla spianatoia infarinata si formano con le mani le cajettes, dalla forma di piccole uova, quindi si tuffano nel brodo bollente e si fanno cuocere per circa 30 minuti. Si scolano e si condiscono con burro fuso, salvia e formaggio grattugiato, oppure in una versione più ricca si mettono in una pirofila e dopo averle cosparse di toma si fanno gratinare in forno.
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Altre ricette di Rosa Del Gaudio sul blog Il Folletto Panettiere